
«Ora, la tesi da sviluppare (comunque sia il nostro temperamento e la nostra disponibilità dinanzi alla natura) è questa: dare l’immagine di ciò che vediamo, dimenticando tutto quello che è stato fatto prima di noi.
Il che, io credo, permette all’artista di estrinsecare tutta la sua personalità , grande o piccola che sia».
Così scrive Cézanne a Emile Bernard il 23 ottobre del 1905. Naturalmente il dimenticare di Cézanne è semplicemente l’unico metodo per produrre futuro riassumendo il passato, poiché la vera arte non è mai esplosione o germinazione spontanea bensì ricerca di un senso, sempre rinnovato, che è alla fonte stessa dell’insorgere della coscienza umana.
Ogni opera-chiave si colloca nel futuro riavvolgendo un filo che viene da molto lontano e che ha radici in altre opere, in altre tessiture.
Questa ricerca non avviene mai all’insegna del diletto o del piacevole.
Insegnare a vedere il mondo , «spolverato» dalla sonnolenza che lo avvolge e rende ciechi gli uomini, è un processo febbrile ed estenuante.
Presentare allora un artista come Ciro Cacace che della lotta contro la rinuncia del passato ha fatto un dovere quasi etico, senza cedere alla nostalgia, ci sembra un atto doveroso.
L’essenza del suo sguardo potrebbe così riassumersi: fedeltà devota al mondo visibile. Ma questo non sarebbe ancora sufficiente, ché la vera fedeltà non è la stasi nell’abitudine, nel ripetersi noioso di gesti stanchi ma incessante movimento verso un sentire oscuro che non potrà avere mai fine se non al prezzo stesso della vita.
La fatica di Ciro, pittorica e dunque esistenziale, è siglata dalla perturbazione del fenomeno, di ciò che appare e si cela; di ciò che si rivela prima e dopo la reificazione delle categorie concettuali. Ecco quindi che la dedizione all’immagine diviene il proprio romanzo di formazione, l’incubazione laica di un risveglio che si allontana un po’ ad ogni presunta conquista.
Lo sforzo vistoso della sua arte è snidare la natura dietro le atmosfere, portarla altrove fino allo spasimo per ritornare fatalmente sconfitto al punto di partenza, all’oggetto: mistero gaudioso della pittura, spiaggia delle gamme cromatiche. Se la ricerca della natura è affidata alle sensazioni (nozione fin troppo truistica), queste, allora, in Ciro, si insinuano con un tremolio tellurico nella «coscienza», scuotendola dai torpori ottundenti e convenzionali, per ricostruirla quale nuova illusione intellettuale, nuovo codice dell’apparire.
La sua pittura oscilla tra una percezione che imperiosamente spinge all’ordine assoluto delle cose – alla loro lucentezza e durezza – e a ciò che resta di questa splendida fissità cristallizzante, quando quell’ordine e quella percezione scivolano nella vibrazione della dissoluzione.
È un movimento bipolare che da una parte annovera una tradizione consolidata (ma che in Cacace si arricchisce simultaneamente di abbandoni e di fredda ironia) e dall’altra sviluppa un’esecuzione che affronta e aggredisce l’ignoto dell’oggetto mostrandone il dolore e l’assurdità .
Nella doppiezza dei suoi stilemi egli conferma che c’è un essere che parla lingue molteplici e apparentemente opposte e che, nella sua solitudine, l’artista deve sempre ricominciare a parlare e ad ascoltare come se nessuno avesse mai parlato o ascoltato.
Stefano Santuari
Bologna, Italia

Le note fondamentali della pittura di Ciro sono di per sé manifeste: la viva sensibilità al colore, la profondità di sentimento e di impegno, la padronanza tecnica dei mezzi di espressione.
Di fronte a lui, la realtà : e qui è più difficile intendere il rapporto che lega l’artista al mondo che lo circonda; motivo che vale la pena di indagare, sulla base delle opere e del loro cronologico succedersi, nel corso evidente di una maturazione formale ed estetica che riteniamo estremamente positiva.
Ben chiara è la mediazione culturale, il filtro attraverso il quale il pittore inizia l’approfondimento della propria visione: la realtà è presa in esame con occhi educati alla lezione degli impressionisti, dei macchiaioli, di un certo naturalismo post-romantico, intimista e crepuscolare. Più tortuoso ed aspro è il rapporto psicologico con la realtà stessa: rapporto improntato a fermezza di strutture e saldezza di equilibri, ma, specialmente nelle nature morte, quasi di repressione, e, perciò spesso, di problematicità .
Ci sembra di avvertire, agli inizi della attività del pittore, nei riguardi della realtà a lui dintorno, come un rispetto ossequioso e duro, un eccesso d’amore, un risentimento oscuro, quasi di disagio dinanzi a presenze troppo ingombranti, pur nella loro necessità inalienabile: e ci sembra questo il punto critico della formazione dell’artista, il punto dal quale egli riesce a prendere un nuovo avvio.
Crisi tutta interiore, non declamata, né irosa, dalla quale egli esce istintivamente, per purificata capacità lirica, aprendo la propria visione, la propria sensibilità cromatica, in area musicalità di rapporti tonali.
L’intimità della «narrazione», la sommessa e tenace ricerca della «verità » nella pittura, non vengono meno: ma si dispiegano più liberamente, passando da immobili armonie compositive ad equilibri più mossi e dinamici, dalla stabilità rassicurante all’avventura formale che risolve l’oggetto in infinità di richiami espressivi. E tutto questo per virtù del colore, non più qualità applicata ma ora preminente orchestrazione di valore di tono, di quegli accenti di qualità – luce che sono l’affascinante motivo e principio dello slancio dalla realtà alla rarefatta reminescenza cromatica della realtà stessa.
Nuovo rapporto colore-luce-realtà , dunque, che viene indagato, ricercato, raggiunto per un attimo, per mille attimi, nella sua intrinseca possibilità di astrazione, materiata di riflessi, di sfaccettature, di risalti e di atmosfere, di incisività e di evasioni, in quella sua definitiva inafferrabilità che è la vera sostanza, eterna e labile, della vita stessa.
Un discorso a parte merita il Ciro ritrattista: e torna anche qui il tormentato rapporto del pittore con la realtà , quella umana per giunta: somiglianza strettissima, non compiacente e non pietosa; caratterizzazione spiccata, in un periglioso equilibrio di penetrazione psicologica del soggetto e di riserbo severo della propria partecipazione umana; il tutto, assolutamente subordinato al risultato artistico complessivo.
Rispettoso puntiglio e dubitoso affetto, dove ci sembra di cogliere in pieno quella schermaglia in cui vengono ad essere presi, inevitabilmente, l’artista e il suo modello, là dove, alla fine dell’incontro, nello stesso successo finale, entrambi i termini del dilemma traggono di che pensare, piuttosto che d’essere acquietati.
Ritratti, dunque, anche’essi problematici: il che è, crediamo, quanto di meglio si possa desiderare.
Goffredo Rosati
Roma, Italia

E’ in certe improvvise intuizioni che si scopre la vastità di ispirazioni di Cacace, ed è per me motivo di piacere presentarlo al visitatore.
Domenico Imperatore
Gaeta, Italia

Caro Cacace,
grazie per la tua pittura così meravigliosa, piena di quei colori unici... e musicali.
Severino Gazzelloni
Manziana (RM), Italia